di Giuliano Guzzo
Mutuando lo slogan della celebre pubblicità della Nutella, è
possibile chiedersi: che mondo sarebbe senza famiglia? Quanto sta
accadendo in Italia e in Europa, dove le Istituzioni nulla fanno, anzi,
per sostenere la «cellula fondamentale della società umana»
– come l’ha chiamata anche recentemente Papa Francesco -, permette
almeno in parte d’immaginarlo. C’è però un’esperienza storica che meglio
di tutte le altre consente davvero di comprenderlo: quella dell’Unione
sovietica. Sin dal principio, infatti, l’Urss si mostrò tempestiva, come
meglio non poteva, nel lavorare contro la famiglia: il 19 ed il 20
dicembre 1917 – subito dopo la mitica Rivoluzione, dunque – furono
varati due provvedimenti che oggi troverebbero senza dubbio posto
nell’agenda progressista dei “nuovi diritti”: il primo, sul divorzio,
stabiliva che bastasse la richiesta di uno solo dei coniugi per
ottenerlo, mentre il secondo decretò l’abolizione del matrimonio
religioso in favore di quello civile. La ciliegina sulla torta, se così
possiamo dire, arrivò poi nel novembre del 1920 con la legalizzazione
dell’aborto procurato sulla base della semplice richiesta della donna,
da effettuarsi in strutture idonee e con personale autorizzato; una
misura che rimase in vigore fino al 1936, quando il legislatore
sovietico, verosimilmente allarmato dallo scenario venutosi a creare,
tornò sui propri passi con un sorta di “controriforma familiare”. Ma che
cosa accadde esattamente in Russia fra il 1920 e il 1936? Quali le
tendenze sociali sviluppatesi nel corso di quei sedici anni? La
compresenza del matrimonio “laicizzato”, del divorzio reso agevolato e
dell’aborto legale rende quella specifica fase della storia sovietica
particolarmente utile per non dire unica, al fine di farsi un’idea dello
scenario verso il quale il mondo occidentale, che pure è così
ideologicamente distante dal comunismo, sta ahinoi marciando.
Matrimoni e divorzi
Le nuove leggi sul matrimonio e sul divorzio del 1917 divennero subito molto popolari. «Il
procedimento giudiziario per il divorzio, questa vergogna borghese,
fonte di avvilimento e di umiliazione, è stato completamente abolito dal
potere sovietico. Da un anno esiste ormai una legislazione
assolutamente libera sul divorzio», affermerà Lenin (1870-1924) per
celebrare in particolare la seconda riforma. Alla quale, con il Codice
del 1926, se ne aggiunse una terza che, accanto al matrimonio
registrato, contemplò anche quello di fatto, attribuendogli il medesimo
valore giuridico. Sarebbe molto interessante, ma non è purtroppo
possibile esaminare nel dettaglio gli effetti generali di
quelle riforme dato che, dal 1926 in poi, le informazioni raccolte
risultano frammentarie e parziali; questo perché in quel periodo ci si
limitava ad una mera suddivisione fra coniugati e non coniugati e si
sarebbe dovuto attendere fino all’anno 1979 per un censimento sullo
“stato civile” con le varie opzioni (sposato, non sposato, vedovo,
divorziato, separato). Ciò nonostante i dati pervenutici, benché in
prevalenza di carattere locale, sono indubbiamente allarmanti: nel 1920 a
Pietrogrado il 41% dei matrimoni civili non durava più di sei mesi, il
22% meno di due e l’11% meno di un mese. Nel 1926 a Mosca, a fronte di
1.000 matrimoni, si contavano 477 divorzi e nell’Unione sovietica, nello
stesso anno, si stimavano oltre 500.000 donne divorziate, ma appena
12.000 di queste ricevevano gli alimenti mentre alle altre toccavano
povertà e solitudine, alla faccia della “liberazione” promessa dal
regime. Nel complesso lo scenario sociale venutosi a creare fu talmente
disastroso che la politica fece marcia indietro dapprima nel 1936 e poi
nel 1944. Nonostante la spaventosa crisi verificatasi in particolare fra
gli anni 1920 e 1936, gli studiosi – considerando l’intera durata del
regime sovietico – sono stati comunque sorpresi nel riscontrare come
famiglia e matrimonio abbiano resistito, dimostrandosi più forti anche
di un’ideologia accanitamente ostile (Working Paper, 1993:1-74:19).
Denatalità
Nel suo Russia’s Peacetime Demographic Crisis: Dimensions, Causes, Implications
(Nbr Project Report, 2010) un economista politico esperto di questioni
demografiche come il professor Nicholas Eberstadt ha osservato un fatto
certamente non scontato ed assai indicativo: a dispetto delle gravissime
perdite dovute alla Prima Guerra Mondiale, fra il 1914 e il 1917 la
popolazione russa è aumentata mentre «nel corso dei sei anni
seguenti, invece, la popolazione totale stimata di Russia è diminuita di
oltre tre milioni, ovvero quasi il 4%» (p.8). Eberstadt addebita
il curioso fenomeno alle profonde trasformazioni subite dalla società in
quegli anni, tuttavia è difficile escludere il contributo dell’aborto
volontario allo spopolamento. Aborto la cui diffusione, dal 1920 in poi,
non solo continuò, ma fu inarrestabile: si passò dai 3.3 aborti
volontari ogni 1.000 nati del 1924, ai 58.8 aborti ogni 1.000 nati del
1934. E, come se non bastasse – scrive la studiosa Cristina Carpinelli –
«molte donne continuarono a ricorrere agli aborti illegali presso
le babki, soprattutto nelle campagne, dove spesso gli ospedali non erano
attrezzati per questo tipo di intervento» (Donne e povertà nella Russia di El’cin,
FrancoAngeli 2004, p. 215). Se da un lato l’istituto del matrimonio
entrò dunque in crisi e, dall’altro, l’aborto spopolò, anche il numero
dei nati, nel giro di pochi anni, subì un declino spaventoso: i
3.055.527 conteggiati nel 1924, si ridussero appena dieci anni più
tardi, nel 1934, a 2.627.900. Ciò nonostante Stalin (1878-1953), forse
per non sollevare allarmi, si guardò bene dal sottolineare il problema
vantando invece il fatto che, alla fine del 1933, la popolazione fosse
arrivata a 168.000.000, sovrastimandone a scopo propagandistico il
numero – si sarebbe scoperto molto tempo dopo – di quasi 8.000.000 (Naselenie Rossii v XX veke, Rosspen 2000, p. 346).
Bambini soli, criminalità e prostituzione
Un ultimo frutto della disgregazione familiare sovietica, fu il
diffondersi di quella che Vladimir Zenzinov (1880-1953) ha decritto come
«infanzia randagia»: i conflitti, la carestia e la povertà –
unitamente, per l’appunto, all’aumento di nuclei “senza capo”,
costituiti cioè dalla sola madre con figli, e pure dei casi di poligamia
e poliandria – hanno determinato una tragica impennata del numero di
giovani abbandonati, costretti a delinquere o a prostituirsi pur di
sopravvivere. Per quanto riguarda la criminalità infantile, si può
ricordare come solo dal 1918 al 1921 – cioè in appena tre anni – questa
fosse aumentata, riferiscono i rapporti ufficiali dell’epoca, «in proporzioni fantastiche» (Bollettino della Giustizia dei Soviet,
n. 12, 1922 p. 14). Venendo invece alla prostituzione, è possibile
rammentare la situazione di Kharkov, seconda città più grande
dell’Ucraina dopo Kiev, dove a metà degli anni Venti a vendere i propri
corpi c’erano anche bambine di appena dieci anni di età o addirittura,
in alcuni casi, più giovani. Di fronte a questo autentico disastro
l’Unione sovietica – che in un primo momento aveva sottovalutato
il fronte educativo non solo colpendo la famiglia, ma persino abolendo e
perseguitando associazioni del tutto innocue quali i Boy Scouts,
“colpevoli” d’essere private – tentò di correre ai ripari con istituti e
strutture che potessero offrire ai giovani “randagi” un tetto e
un’educazione, ma i risultati furono assai modesti: da un rapporto
presentato nel 1927 emerge come circa l’80% di questi istituti non era
organizzato né funzionava come avrebbe dovuto. Fu così che come si è
detto, prima nel ’36 e poi nel ’44, l’Unione sovietica tornò a
rivalutare la famiglia, ma non tanto per via di una sorta di riscoperta
dell’istituzione bensì – come ha giustamente osservato lo storico
Francesco Agnoli – perché ci si accorse che la progressiva disgregazione
familiare stava comportando anche quella dello Stato. Una lezione
durissima oggi dimenticata ma che dovrebbe essere riscoperta, evitando
di lasciare ai soli cattolici e laici controcorrente il compito di
battersi contro i falsi miti di progresso.
( “La Croce”, 7/3/2015, p.3)
Pubblicato il 11 marzo 2015
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